“L’Unità”, 24 giugno 1969
Mulas non concede nulla alla pace dell’occhio, lo riempie di “realtà” fino alla nausea, sforza lo spettatore a riconoscere il proprio sguardo e a rifletterlo in se stesso. Tutto il vuoto delle immagini distribuite a livello di massa, nelle quali la violenza rivoluzionaria, la rabbia dell’individuo oppresso, l’orrore dell’uomo massacrato, si porgono come ingredienti ovvi, e quindi innocui dell’esistere quotidiano, si rivela in questi racconti che non scorrono, in queste narrazioni che non volgono ad un fine, in quei gesti rivoltosi che s’incatenano al loro divenire immobile oggetto di arte che il mercato inesorabilmente catturerà. Ma ciò che permette di sperare ancora è proprio l’assenza di ogni speranza che questa arte porta con sé in maniera assolutamente, e pervicacemente provocatoria e bene ha fatto Dario Micacchi a citare a proposito di Mulas le parole di Rudi Dutschke: “È soltanto la situazione disperata del presente che mi riempie di speranza”.
Anche Giorgio Cortenova, il presentatore bolognese della mostra parla di personaggi eversivi e disperati e, riferendosi più particolarmente al “potere” delle strutture artistiche, presenta Mulas come un esponente tipico della generazione tradita, quella dei giovanissimi senza speranza di contestazione. Ma mi sembra che Mulas abbia in sé abbastanza forza per sopravvivere e per testimoniare di un tradimento non tanto estetico ma “sociale” del quale è vittima l’uomo integrale, e non solo l’artista. E a questa testimonianza, che è anche confessione vera e propria di fede impossibile, mi sembra siano legati i momenti più incisivi e inquietanti del suo “far pittura”
Franco Solmi, 1969