De rerum natura, e altre visioni
Ho di fronte a me, in ordinata sequenza, vent’anni circa di pittura di Franco Mulas. È un arco abbastanza ampio da consentire una lettura retrospettiva. Che dai recentissimi dipinti con cui si chiude l’iconografia di questo libro, presumibilmente prove d’avvio di una ricognizione ravvicinata nel fervido laboratorio vitalistico della natura, tra forre boschive e recessi acquorei inquadrati come microuniversi dai prospetti vertiginosi, conduce alla suite dei dipinti su un tema, l’Albero rosso di Mondrian (1979-80), davvero emblematico del mutamento di posizione dello sguardo e di obiettivo del vedere imposto dallo spirito della ricerca all’artista contemporaneo. Non consiste che in un piccolo nucleo di opere, quell’omaggio interlocutorio, quell’esercizio di stile condotto sul testo “sacro” del padre del neoplasticismo. Un nucleo tuttavia capitale nella storia di Mulas perché collocato, a mo’ di cerniera, in una fase cruciale del suo divenire. Esattamente al giro di boa, all’ardito snodo tra la figurazione critico -esistenziale e di incidenza politica degli anni Sessanta e Settanta, e il deflusso o l’approdo degli Ottanta in un’area neosimbolista che vorrei dire visionaria. Cambiano radicalmente, difatti, i referenti culturali e poetici e la stessa topografia della pittura di Mulas in quel torno. Si passa da un ambiente urbano ove lo spazio pubblico invade e ingloba, alterandolo, quello privato, sicché la cronaca della deprivazione quotidiana si fa defatigante materia della storia, a una dimensione dell’immaginario nella quale i relitti della storia si depositano sotto specie di reperti archeologici, di simulacri dell’arte, di fantasmi della letteratura. Tra le spoglie, i consunti trofei dell’immaginario pittorico di un versante abbastanza composito della sensibilità europea romantica e decadente, che va da Friedrich a Novalis a Coleridge, da Turner a Previati a Sartorio a Boccioni, da Blake a Bócklin a De Chirico, da Redon a Max Ernst, Mulas compie una cavalcata, una navigazione a vista. Lo fa non già con spirito citazionista, sull’onda rifluente della moda museale e anacronista, sibbene da pittore che vuol interrogarsi sul proprio statuto mettendosi in scena nel teatro dell’arte, attraversando il diaframma del visibile, la pelle estenuata della pittura, intesa come luogo ove celebrandosi l’inganno dei sensi, si compie l’alchimia della permutazione della materia, l’artifizio dello svelamento del reale nella dimensione sfiiggente del virtuale. Si tratta, in sostanza, di una rivisitazione del laboratorio linguistico e della memoria iconica e fantasmatica della pittura, che rispecchia tempestivamente e in modo sintomatico la crisi di ruolo, il disagio da posizione della figura dell’artista di fronte al mutamento in atto nel contesto socio-politico e culturale italiano, in quegli anni segnati dalla fine dell’emergenza terroristica e dall’insorgente fenomenologia dell’effimero. Mulas concludeva in quel tomo la sua prima grande stagione, un quindicennio circa di pittura-referto, contrassegnata da un linguaggio denotativo ad alta definizione visiva e di enunciazione drammatica, e da una spazialítà esatta e dai tagli claustrofobici, elementi che concorrono al congelamento straniante dell’azione. Una pittura d’immagine composita, nella quale la sintassi sincretica della nuova figurazione incrociava variamente ibridandoli, non solo stilemi pop segnaletici di circolazione corrente, ma Bacon, Max Emst, Rosenquist: ossia istanze espressioniste, surreali, iperreali, tutte egualmente funzionali alla rappresentazioric di quel malessere o disagio della civiltà di cui ragionava l’intellighentia dell’epoca. Malessere sinceramente avvertito,, beninteso,, da molti artisti, per quanto se ne vogliano oggi ridimensionare la portata e l’incidenza ponendolo in rapporto causale con l’avvertimento della crisi dell’intellettuale cosiddetto organico, alle soglie della caduta delle ideologie e dell’incipiente postmodernità. Sulle ceneri di un “impegno” (la parola la si può decorosamente pronunciare, vorrei dire a Renzo Vespignani, che ne scriveva con provocatoria ironia “revisionista” in un bel testo dell’85 su Franco Mulas) consumato nel nome di una figurazione critica tradita dalla storia, ma non per questo esauribile, con formula riduttiva) nella categoria omologante d’una datata poetica dei contenuti, Mulas apriva sullo scorcio degli anni Settanta un nuovo capitolo della sua storia di pittore. Non a caso celebrava il suo “rito di passaggio” con la lettura parametrica, e autospecchiante, di uno dei testi canonici della filologia e della mitografia delle avanguardie storiche, utilizzato come emblema, e dunque cifra metalinguistica, del proprio mutamento, prima che come strumento analitico per comprendere la struttura interna, l’articolazione spaziale della materia, la dinamica della forma attraverso cui doveva necessariamente passare l’eventuale rinnovamento. Ebbene. dall’osservazione compendiaria del percorso di Mulas scandito in cicli di precisa collocazione temporale e di sicura individuazione tematica e stilistica, emerge un dato di fondo che mi pare essenziale e distintivo. Dico la natura sostanzialmente mentale della sua creatività. Mulas rivela una spiccata predisposizione progettuale, una capacità di previsione e di controllo che prescinde dal grado di oggettivazione del linguaggio. L’istinto non fa parte della sua cultura (o almeno non trova durata quando pur scatti, in figura d’intuizione, al riconoscimento di un’occasione stimolante), pur se la gestualità fulminante di molte partiture sembra trovare alla prima la propria forma, in modo automatico e quasi con una scherma che ricorda Mathieu e una certa scrittura boldiniana. Se non anche, ancor prima, l’agile tessitura toccata dei frescanti settecenteschi, specialmente veneti, che occhieggiano da molte prove recenti di aerei paesaggi chiaristi sospesi tra terra e cielo. In realtà, il ritmo danzante e talora quasi la ridda dei segni presuppone una disciplina interiore, una concertazione intuitiva ma non meno rigorosa del processo formatore: quasi un’ideale coreografia governasse la struttura aperta, fragorosamente dinamica della materia pittorica e una logica panteista ispirasse l’animazione visiva dell’immagine. Segnatamente nei tendenziosi paesaggi d’acque e di cieli fantomatici eseguiti, come musicali variazioni in tema, dal ciclo Bíg Burg (1991-92) a oggi. Anche non volendo legittimare l’ipotesi di un’appartenenza di Mulas all’area del “freddo” teorizzata da Renato Barilli, e richiamata con pertinenti osservazioni da Antonio Del Guercio; o a quella linea analitica” dell’arte moderna di cui ragionava Filiberto Menna, non v’è dubbio che dietro il lavoro del pittore romano vi è una strategia operativa che non ammette divagazioni eteronome né cadute di qualità formale e di significanza visiva. t una eculiarità che attraversa i periodi concatenandoli in modi sottili, però trasparenti sul piano linguistico e ideologico o poetico che ir si voglia, e intendo leggibili nel seguito dei icli e dei periodi. Leggibili anche quando più decisi e persino antipolari sembrano gli scarti stilistici, i referenti culturali, le destinazioni espressive che ovviamente traducono situazioni epocali, climi culturali, temperature esistenziali diversamente connotati nel tempo. La soluzione di continuità, il filo rosso che si dipana lungo i vent’anni di lavoro documentati in questa mostra, sembra essere la tendenziale obliquità dello sguardo, il suo clinamen, l’orientamento trasversale delle traiettorie che consentono ai simulacri della realtà fenomenica, e alle impronte della memoria visiva che appartengono ai materiali costitutivi dell’opera, di incrociarsi nel recinto magico della pittura e di dare luogo, con la diversa loro angolazione o incidenza, alla varietà delle forme e alla stratificazione dei livelli dell’immagine. Ovvero all’ambiguità della visione. Non si dà in Mulas assunzione figurale che non presupponga un filtro mentale, e sulla tela un confacente ordine codificato di segni, colori, strutture formali la cui funzione è quella di tradire la derivazione naturalistica dell’immagine, i cui indizi disseminati anche con abbondanza di notazioni atomizzate, talora eseguite con puntualità mimetica da secentista nordico, hanno la funzione dello sviamento: simulano artatamente il piano della realtà non già per dichiararne con pacificante minuzia inventariale la percorribilità, ma per complicarne la lettura insinuando percorsi alternativi e sommersi oltre quelle apparenze icastiche.
Nicola Micieli, 1998