Presentazione alla Galleria “La sfera”, Modena
La prima intuizione fu di Fellini. In quella non lunga ma martellante e angosciosa sequenza di “Otto e mezzo” nella quale era colto, più che descritto, il momento di insopportabilità di impellente necessità di evasione, d’un essere umano preso nella morsa del traffico urbano delle automobili, dell’attesa da ogni parte sbarrata, dell’impedimento dorato; come quello d’una piramide e delle sue raffinate suppellettili, inutili alla mummia in essa collocata.
Non altra possibilità di rottura che la fuga. Contraddizione soltanto apparente: vi sono infatti congiunture storiche nelle quali appunto la fuga nella fantasia è strumento di prima efficacia per intervenire metaforicamente, vale a dire con i mezzi dell’arte, sulla realtà, aggredirla, metterla sotto tiro, e a volte, concorrere a trasformarla. Fu questo uno dei temi del rapporto, ad esempio, fra Surrealismo e Rivoluzione. Nella premonitrice intuizione di “Otto e mezzo” che ricordiamolo risale ad anni nei quali non ancora come l’attuale era l’iperbole del traffico automobilistico urbano in Italia, Fellini veniva in ausilio del suo dolente e agonizzante personaggio, afferrato appunto in quella morsa, con un’ellissi fantastica: l’uomo sgusciava fuori dal finestrino dell’automobile, raggiungeva le nuvole, spaziava ed aleggiava libero nell’aria pura. Poi della gente, da sotto, improvvisamente lo cominciava a chiamare, a riportare a terra, catturato. È in gran parte il tema attorno al quale lavora il pittore Franco Mulas: senza neppure il minimo richiamo illustrativo alla situazione folgorata da Fellini, ma all’interno di essa, alla scoperta del nesso fra realtà ed evasione, fra pulizia astratta delle cose e loro volgare, minacciosa sporcizia e arroganza fra grido d’allarme e soffocata presenza dell’uomo tra gli oggetti e nella società dove, mentre prende coscienza della sua prigionia, è tuttavia attratto o ingabbiato dalle abitudini d’uso impostegli dalla macchina industriale.
Fra i pittori giovani italiani che si muovono, ciascuno per vie diverse nell’ambito di questa tematica (i nomi che sono stati fatti dal primo critico d’arte che si sia occupato di Mulas con impegno, Dario Micacchi, sono quelli di Sarnari, Cintoli, Guccione, Tornabuoni, Drago, Mattia, Guiotto, Turchiaro Calabria: è il caso di parlare di una nuova “Scuola romana”?).
Il nostro amico ha una linea di sviluppo del tutto particolare. Occorre intanto osservare che egli è alquanto lontano sia dai più espressionisti dei pittori citati sia dai più surrealisti; per intenderci egli è equidistante vuoi dall’impeto e dalla violenza di Calabria vuoi dalle trasposizioni lirico-intellettuali di Guccione, mentre le sue parentele più dirette sembrano essere soprattutto con Sarnari, con Mattia.
In primo luogo per quanto riguarda il concetto stesso di immagine dipinta: una ricerca spietata di precisione, di esattezza, perché la forma punga e tagli da ogni lato e il colore sia non soltanto l’indice delle differenze ottiche sotto la luce, ma il carattere e l’esistenza stessa delle cose.
Fra i giovani pittori italiani Mulas è il più inconcepibile in bianco e nero. E questa osservazione tanto più vale a mio avviso quanto più egli ha il coraggio di non temere il confronto, l’ausilio o addirittura l’uso della fotografia nella costruzione di ciò che, soltanto apparentemente, sembra ritagliato con un obiettivo dal caos della realtà e che a ben vedere, invece, è interamente frutto d’una energica, quanto appassionata fantasticheria.
Antonello Trombadori, 1968