Presentazione della personale alla Galleria “S. Croce”, Firenze
L’oggettività icàstica della pittura di Franco Mulas così metallicamente acuta, e nitida nei profili, nei volumi e nelle illuminazioni, sotto le cui lucide trasparenze, quasi di pellicola colorata, senti nondimeno sempre la densità e la gravezza della materia, ebbe uno scatto di qualità, perfino inaspettato – oserei dire – rispetto alle prove, tuttavia impressionanti, degli anni immediatamente precedenti (e di qualità nei due sensi: dell’etica e dell’estetica) con i grandi quadri del ’73 esposti al “Fiorino” e intitolati (ironicamente, a dir poco!) “Vernissage iperrealista”.
Si vede, al centro di quei dipinti, un uomo nudo, troppo avanti non nel numero degli anni ma nel cammino difficile di un’esistenza aspra: una sorta di comparsa, smagrita e precocemente invecchiata, di povero Cristo attorno a cui le facce delle persone cosiddette dabbene, irreprensibilmente vestite, recitano la parte dei derisori. E tutta la dignità della creatura umana è concentrata nel modello nudo, esposto, nel cerchio impietoso della luce nera di un riflettore, sul disco di una piattaforma; in piedi o seduto su sgabelli di metallo cromato o di plastica bianca; solo o attorniato dagli spettatori farisaici.
La sua storia di pena, narrata per righe incisive, per solchi di carne, per articolazioni nodose di mani e di piedi, secondo gli scavi di un’operazione anatomica, diventa ferocemente ammonitrice. Qui la pittura rompe felicemente gli argini avari di un dogma pretestuoso assegnatole dai minuti philosophi e ritorna ad essere la pittura di sempre: contenutistica, illustrativa, storica, didascalica.
Pochi artisti hanno oggi, come credo, la stessa forza di Franco Mulas, il suo impegno coraggioso e caparbio di scavo a fondo nella realtà: per rivelarla qual è, totalmente, e rovesciarla, fin dove è possibile.
Il suo lavoro rifiuta coscientemente di considerare l’immagine d’arte “un mero problema di forma”; ed è per tale via, sotto l’urgenza autentica delle cose da dire, che il modo di dirle diventa formalmente ineccepibile, recuperando, insieme con la pienezza del colloquio aperto a tutti, nei termini di un’eloquenza alta e severa, anche il sentimento della storia, della nostra tradizione: si veda, ad esempio, il consapevole recupero dell’umanesimo fiorentino nel quadro del 1974, “Super/esposizione n. 2”, dove la prospettiva quattrocentesca rivive in maniera assai più convincente e attuale (proprio nel significato preciso di esaltazione della dignità umana) che non nei ritorni pierfrancescani degli anni venti.
Fortunato Bellonzi, 1975