Presentazione della personale alla Galleria “Bergamini”, Milano 1970
Franco Mulas ha poco più di trent’anni e la sua prima personale risale soltanto al ’67. A guardare i suoi quadri si direbbe tuttavia ch’eg1i abbia dietro le spalle un tirocinio assai più lungo, un’esperienza acquisita nel corso di un esercizio ben più fitto di prove e di ricerche. E ciò non solo per le doti tecniche della sua pittura, che sono indubbiamente consumatissime, ma per la straordinaria capacità di assimilazione culturale ch’egli rivela nell’impostare e risolvere le sue immagini, per la sintesi sicura di linguaggi diversi che si allarga tanto alle più varie espressioni plastiche che alle suggestioni filmiche e letterarie, sino oserei dire a certi modi della più intransigente critica saggistica.
Chi ha scritto di lui ha già messo in evidenza il folto gioco di confluenze che intervengono nel suo processo creativo: Rosenquist e jardiel, il Blow up di Antonioni e il Week end di Godard, i pensieri di Rudi Dutschke e le parole d’ordine o gli slogans del Maggio francese; questo ed altro ancora.
Ed ecco i quadri di Mulas: quadri sulla città nei suoi aspetti di alienante benessere: quadri tesi come una pelle di tamburo, lucidi come una pellicola in tecnicolor, allucinanti come dentro una folgorazione al magnesio.
Mulas dipinge senza approssimazioni, senza atmosfere, senza dolcezze tonali. E una pittura cruda, la sua: cruda, artificiale, metallica. Ogni oggetto, ogni figura, ogni particolare è definito con spietata e impassibile precisione, anche il sangue, anche la morte. L’ottica di Mulas ha la distaccata obiettività dello strumento fotografico. Ma, naturalmente, si tratta di una “finta” impassibilità. Egli guarda sì con occhi fissi, senza batter ciglio, lo spettacolo della brutalità e del coraggio, dell’ossessione moderna e della rivolta, ma lo fa per non perdere un cenno, un attimo, un dettaglio. In questa volontà di uno sguardo diamantino risiede il segreto della sua poetica e della sua decisione di artista.
Si potrebbe pensare ad Aillaud, meglio ancora a Recalcati, a Cremonini. Mulas però, pur entrando nell’ambito della tendenza della più attuale figurazione oggettiva, possiede un linguaggio inconfondibile. Ricordo quello che diceva Otto Dix nel dicembre del ’27: “Per me, in ogni caso, è l’oggetto che rimane il fatto primario. La forma è plasmata soltanto dall’oggetto. Perciò mi è sempre apparso della massima importanza il problema d’avvicinarmi il più possibile alla cosa che vedo. Più importante infatti del “come” per me è la “cosa”! Soltanto dalla “cosa” si sviluppa il ”coma”!”.
Si può dunque riconoscere in Mulas una ripresa in chiave contemporanea di una simile poetica? La domanda non è fuori luogo, purché tuttavia si tenga presente che alla radice della “cosa” dipinta c’è una scelta, una determinazione. E questo è proprio ciò che rovescia la fredda oggettività di Mulas in tagliente ed urtante contestazione radicale, contro ogni effusione dell’anima, contro ogni rifugio nel “regno inalienabile dello spirito”.
Mario De Micheli, 1970