Corde fluviali, spiro d’erbe
In primavera i cidoni meli irrigati dalle correnti deifitani, là dove delle vergini è un intatto giardino…
[Ibico di Reggio, VI secolo]
Ecco le acque, gli arbusti, le lame incandescenti di un’elitra e tra essi punti rossi, fuochi impercettibili e voraci che s’infiltrano nel tessuto erboso delle corde fluviali. Poi tutto vi riposa: natura e biologia, fosca risonanza di rifiuti, bagliori gravidi di lamiera, suoni cupi e tenebrosi di chele, lo strisciare di artropodi; infine il tocco languido e salvifico dell’acqua, il mortale occultamento e la rinascita. Ogni cosa d’altronde sembra approdarvi senza apparente pena, soltanto per mostrare, in tutto il suo motore, il grande strazio del mondo, il distorto e corrusco scenario d’un filo suadente di luce, lavaga sostanza assorta sulla sponda prossima degli occhi. Così Nelfiume (1998), complessa e “spontanea” opera di Franco Mulas, si consegnano, quasi per istintiva disposizione, questi significati, queste vertigini. E su di essi, con una compostezza sempre nuova, ma anche con un rigore percettivo diverso dalle esperienze legate all’Albero rosso di Mondrian (Biennale veneziana, 1980), è capace di trattenere sempre alto il respiro, ancora con quella tenacia espressa nei Notturni, nei Paesaggi o nelle Stalaginiti felicemente riversati nel ciclo di Big Burg (Palazzo Braschi, Roma 1991). Oggi questa densità, capace di scavare come morsura d’acido la superficie terrestre, trova la sua introiezione all’apice della dissolvenza dell’immagine; in quest’avida anima d’artista essa scende lungo le fibre del cuore, sommossa da un “equilibrio” visionario, issata oltre l’amplificabile “réverie poetica”. Tale dimensione, che è quella intransigente dello spirito, non ha negli anni perduto la lucentezza civile che caratterizzò opere colme delle suggestioni americane: espressioni sociali e creative votate alle idealità degli anni Sessanta (quali il ciclo The West, 1968), e mosse tra termini pop e frantumi iperreali (di estremo interesse ci appaiono ancora gli Omaggi a Rosenquist). Lo spirito, si diceva, acquista, di contro, nell’attualità dell’operare, una indefinita palpabilità che non sembra permettere ulteriori deroghe. Esso è magma e aperta rarefazione: quasi un profondare lieve e tenace nella struttura biomorfica del mondo botanico fino ad assorbirne, tra le maglie intime, il sentimento delle cose, in quanto per le “cose” esso si traduce nella vasta categoria del sentimento del tempo. Questa metamorfosi viene condotta non senza una franca commozione; una dimensione di dolorosa fratellanza lo accomuna allo stratificato sembiante di un mondo fortemente contraddittorio e sempre sul punto di essere inesorabilmente destituito. Ciò che affiora dalle opere d’oltre un decennio dì Franco Mulas è il canto dolente di un secolo: il nostro, che ha perpetrato, spinto da spregiudicata quanto immotivata crudeltà, devastanti progetti tecnologici. In esso si nasconde, tra le pieghe dei suoi sconvolgenti poemi, l’irritante negligenza umana, la non fievole perversione di un tentativo di annullamento della euritmia terrestre. Tutto questo ha innestato in Mulas un prorompente desiderio di comprendere nella sua totalità lo spirito del mondo, il fascino delle strutture semplici dotate di un forte e impulsivo liquore spirituale: gocce d’acqua, tralicci erbosi, frammenti dilacerati di rocce e paesaggi filtrati, visioni di zolle ed erbe, oggetti d’uso comune infissi indelebilmente tra di essi e che si nutrono della disperante trasformazione della realtà o che si offrono quali infidi fascinatori. La percezione esasperata, o meglio esercitata, di Mulas, coglie tutto questo con una ebrietà nervosa e appagante, così da essere sospinto in una sorta di felice e curiosa professione d’indagatore, di accanito e sensibile scopritore, simile al suo ‘Robinson” alla deriva, costantemente pronto alla conoscenza.
Il viaggio di Franco Mulas è ciò che la massima di Proust racconta: quella scoperta, cioè, che non va indirizzata alla ricerca di nuove terre, ma all’acquisizione sensoriale, intellettiva, del possedere attraverso “nuovi occhi”, nuovi sguardi, attivando onnivore pupille, altri tattili sensi, chemo e baricettori ricchi di premonizioni. In Mulas ciò che sorprende è la vibrante capacità di mescolare natura e spirito; è proprio in questo prodotto meticcio che egli ci consegna la sua forza, l’emblema di un’operosa e travagliata sostanza. La sua figurazione, travasata dall’acutezza del contemplatore, si veste d’impeto analitico, ma soprattutto si carica di ampia forza evocatrice e, nello stesso tempo, della volontà di traslare luoghi e immagini. Un sentire post-romantico propugnato in un evidente accostamento, quello con Casper David Friedrich (da Bellonzi e ancora da Giuffrè), e che si muove nella spirale multisensitiva della discesa nel simbolo stesso dell’uomo, nella visione della vita. In ciò il passaggio della sua sempre praticabile nuova figurazione, dalla perentorietà insita nel suo lontano stato d’icona fredda e feroce, all’attuale trascrizione vitalistica, termosensibile, ricca di una percettività ad alta risoluzione, di un’emotività raffrenata dall’incanto. Pur mantenendo intatta la capacità di denuncia s’impone, ora, con sempre maggiore densità d’espressione, trasmutare án altra sostanza l’acquisizione e la maturazione dei dati e dei codici stilistici mutuati sia dalle avanguardie storiche sia dalle tendenze coinvolte nel secondo Novecento. La materia decantata nei tralicci informali, invitante e umorosa, densa di linfa, pastosa, putrescibile per il suo esasperato turgore, la si scorge travasata nei Segni nell’acqua (1998), approfondimento pertinace delle sue Ninfee e di quel persistente colloquio con l’idea di natura cara a Monet. Ora i segni trasforinabili sono inquieti cifrari, emblematici e poetici nello stesso tempo; vi si scorge un palustre e fascinoso abbandono: metafora della fine e del ciclo impervio dell’esistenza, che ci porta a ricordare la profonda scrittura di Landolfi. Non un cedimento. Segni e Riflessi appaiono ordinati dalla mente e dal cuore, trasportati dalle acque silvane alle pupille, e da queste al forame oscuro del pensiero in una simbiosi caparbiamente rigeneratrice.
E’ stato Vespignani a cogliere nel 1985 questa assolutezza turgescente in occasione della mostra Finzioni. Egli affermava come in Mulas la visione prenda forma sotto i nostri occhi con un inquietante ambiguità: queste rupi piene di anfratti muschiosi hanno l’incanto del “giardino romantico”, e insieme la sinistra cupezza delle foreste vergini. E dunque, per un attimo, – diceva -ti sembra di indovinare una gioia schietta del pittore, una calma visionaria sul punto di sciogliersi in dolcezza, in un respiro a pieni polmoni”. Di questo respiro Franco trae (soprattutto oggi) il massimo conforto sul fronte della analisi d’un paesaggio che, al di làdelladenuncia ambientalistica, si traduce inunapensosità assorta, quel concepire che quanto ci circonda, ci possiede nell’interiore proiezione delle continue incertezze. Ma nello stesso tempo traspare, nella fatica della conquista, così come intuito da Renzo Vespignani, una franca e gioiosa partecipazione al gesto istintivo della vita. Punta gialla, altra opera del 1998, racconta in fondo questo persistente crepitio naturalistico, e narra, inoltre, l’ansia del cogliere, oltre la cortina dell’icona, quel pensiero spasmodico sospeso tra ragione ed emozione, tra incanto e dolore, tra silenzio e trame sottili di ultrasuoni.
Il verde marcio, l’azzurro temperato, lo scoppio del cromo, il grumo rappresso del sangue, dominano le tele in un’amplificabile armonia interiore. Una sottile, impalpabile dimensione dell’essere nel confronto diretto con quel personale avvertire la profondità, a volte sconfortante, della solitudine. La conquista ottica ed olfattiva dei frammenti operata da Mulas in quel parco del Treja, oggetto di pulsione e confine del mondo, sponda e soglia dove i doganieri restano tagliati fuori dalle voci improbabili e dal commercio, impongono all’artista il fascino di un nuovo tipo di colloquio interstrutturale. E sono i sensi a volerlo, e, oltre questi, il reticolo plastico dell’anima, il canto interno della memoria. Il segno di un mutamento ancora per poco non percepibile, ma già incidente, si offre in ogni opera, come l’ombra che par che non dica eppure è già sostanza del corpo, della sua anima incerta. Una trama figurativa questa di Mulas, mutuata anche dagli evocativi lacerti di Boecklin, che s’immette in un cinematismo vigile, articolato in un soffuso e mobile tremore pronto a denunciare la valenza sibilante del suo percepire, poi il dolore calmo e languido, pensoso, che consente di vedere olte le spine, oltre il sangue. Un artista capace (come voleva Dario Micacchi) di consegnare anima anche alle esperienze della iperrealtà nordamericana, ma con personalissima identità, nessuna estraneità al mondo; mai, per altro in Mulas, un’abdicazione al sofferto dolore del mondo. I suoi giardini, i muschi, i terreni, non sono certo quelli surreali di Yves Tanguy (Le jardin sombre del 1928), ma si raccordano lo stesso con questa voce estraniata per la densità della materia che promana dal tessuto pittorico, dalla sua intenzione genetica se vogliamo. In Tanguy si percepisce il seme che sta sotto la coltre desolata e ammaliante; in Franco Mulas tutto va in emersione. Le pietre, le cascate d’acqua, l’innervazione fluviale della terra diventano filtro e scenario della vita, quella vita che sta per gem-iinare sulla grande concimaia del mondo (direbbe Whitman). E’, infine, l’esplosione: la sua felicità, il suo dramma.
Aldo Gerbino, 1998