Presentazione alla Mostra “E se Roma”, Galleria Ca’ d’Oro
Il pittore sembra sulla via di proseguire un cammino che, già da qualche anno del resto, tutto s’impronta ad una logica meramente visionaria o, se si preferisce, di assoluta matrice surreale. Ciò in modo chiaro testimoniando l’ampia adesione di quella spiritualità creatrice ai dettati d’una sedimentata memoria che ad ideali maestri affida il verso (ed il senso) metamorfico e polimorfico della sua immagine. Mulas è nella condizione oltretutto, oggi, d’aver volontariamente interrotto (né ci appaiono importanti le motivazioni) la comunicazione diretta con le conflittualità del quotidiano (anche se saranno, queste, in qualche misura pur sempre obliquamente presenti), così arrivando a flettere la sua visione, entro e lungo i termini di un’emersione dal profondo di antiche e sempre tuttavia vitali suggestioni. Così nel Sogno romano rifluiranno, in una osmosi che, in quanto onirica, mutua nell’antico assetto compositivo tempi e moduli d’espressione, le latenze di una cultura che ha su di sé imperniato l’afflato complesso e complessivo della storia medesima della città. Non tarderemo, infatti, ad individuare, indicandola, in quella sorta di voluttuosità materica, e nella trama di un dichiarato artificio cromatico-luministico – le fonti della luce sono infatti numerose, e da più parti ora magmaticamente, ora al contrario virtualmente inondano l’opera di una dorata tonalità – in quella, ancora estenuata gestualità che tutta si risolve nell’ottica di sovrapposizioni e giustapposizioni, un ricordo barocco nel cui “topos” l’artificio proprio ha avuto maggior spazio. Per questa via l’artista, per di più attraverso un gusto sapido per una superficie a suo modo smaltata (si osservi la positiva e suggerente rarefazione della pasta cromatica) giunge a dar concretezza al silenzioso (e, ad un tempo contraddittoriamente, impetuoso) colloquio tra sé e il referente della realtà. Il quale, pure, subisce i molti e pressanti affiati di una spiritualità attiva che associa e separa; unifica, entro lo spazio della tela, forme amplificate dal segno, proprio, della memoria, in tal maniera indicandosi quale coagulo di un sostanziale escavo nel passato e contemporanea resa, trionfante, nel quotidiano. L’antico busto marmoreo – un di quei trofei che sono a guardia della complessa formulazione della romanità – circondato di vessilli (e, non di meno, assumendo, per quella enigmatica mano, valenza ambiguamente antropomorfa), e reperti, ancora, di uno straordinario (ma per sempre alienato, quindi frammenti) trascorso fan da proemio all’addentrarsi dell’immagine che, formalmente, si concepisce per due luoghi di privilegiata narrazione, dallo scorrer lento ed incantato del fiume, separati. In tal maniera, nell’ultimo registro, ecco la scultorea prua dell’Isola sacra, rudere tra i ruderi e, per ciò, significante riflesso del segno introspettivo (traendo, si direbbe, dal motivo della visione piranesiana) di Franco Mulas. Tutto, il pittore afferma, non appartiene che al ricordo immaginifico del passato, solo la dinamica della luce rendendo ancor probabile credere nella possibilità di partecipazione al concreto vissuto della storia. CosÏ egli finisce per dichiarare un’evidente prospettiva, in contemporanea annunciando l’esistenziale impossibilità di concedersi tregua nel rendere attuale la suggestione del visivo se non all’interno di un’ancestralità dal sogno rinvigorita o, al contrario, sublimata, che è segno incidente per ognuno. Alcun esplicito riferimento, dunque, alla realtà odierna, ma unicamente verso di rigenerazione che, poi, neppure tarderà a farsi allusivo all’incomunicabilità che governa i rapporti.
Domenico Guzzi, 1989