“Il Tempo”
Al filone della paesistica romantica, tragica e visionaria, che ebbe i suoi vertici nel tedesco Caspar David Friedrich e nell’inglese William Turner, si può avvicinare per vari aspetti la pittura di Franco Mulas, una personalità delle poche davvero importanti e nuove di una generazione ancor giovane. Né l’accostamento si pone come documento di fonte culturale, ma come consonanza di idee sulla pittura (e sulla poesia) quando ha per oggetto la realtà che si fa sogno e il sogno che si fa realtà. (Novalis, probabilmente il massimo dei poeti romantici, intendeva l’arte come l’unità del visibile e dell’invisibile).
E queste parole del Friedrich in una sua confessione citata da Marcel Brion, “tutte le opere autentiche vengono concepite in un’ora benedetta: le crea un impulso interno, spesso all’insaputa dell’artista”, possono essere dette per Mulas, i cui paesaggi determinano nello spettatore un’emozione che gli fa ritrovare nel profondo di sé la forma, la luce, il colore del proprio paesaggio interiore, in una condizione rara di unisono tra lo stato d’animo che diventando autocosciente guadagna chiarezza e si fa dettato di immagine, e la natura che ostentando il suo nucleo più segreto e più vero “svela qualcosa – ripeteremo con Brion – che trascende i nostri sensi e la nostra ragione, qualcosa di infinitamente sconvolgente che possiamo raggiungere soltanto se anche noi, a nostra volta, sprofondiamo nell’abisso”.
Dal fascino singolare che le pitture di Franco Mulas esercitano si è coinvolti nel procedimento stesso della figurazione, nella molteplicità delle sue origini, parvenze e valenze, e perfino invogliati alla tentazione degli sconfinamenti nel mondo della poesia, classica e moderna, per cercarvi non parallelismi, o scampi negli excursus dilettosi, ma plausibilità di analogie che vengano in soccorso alla lettura del dipinto con porgere un nesso indiretto, non però arbitrario, di intenderlo compiutamente nelle cose che dice e nel modo tenuto per dirle.
Se non mi trattenesse il pensiero d’essere per mio difetto di scrittura frainteso, quasi cercassi in una sede letteraria il movente del dipinto, tanto meno il suo effetto e significato ultimi, sarei proclive ad attribuire alla pittura del Mulas un procedere per invenzione di metamorfosi e di metafore emergenti col farsi dell’opera: un iter eccitato e concatenante di immagini simili a quello della poesia di F.T. Marinetti che si irradia al possesso di una somma enorme di sensazioni, ricordi, interferenze di pensieri e di atti, stringendo nell’unità di un tessuto organico connettivo l’esuberanza dei motivi al cui affollarsi disordinato impone le leggi e la misura di un tempo e di uno spazio cosmici.
Vedi come la visione del pittore si organizza in sembianze di natura, di racconto o di mito: sono cieli, rocce, mare, vascelli di pietra e di rame, pesci, sassi, tesori di monete e reliquie di testimonianze umane, su cui si stendono a ondata lente le reti d’acqua e d’aria, raggiando più soli e diventando splendore assorto la materia corrusca, che in ogni punto operata genera dal proprio seno, nel conquistare la superficie, le cose e i fantasmi delle cose che hanno naturalezza e verità quasi tangibili, ma che infine sono la pesca miracolosa di una realtà ambigua nel punto medesimo della sua più convincente evidenza.
(E certi cieli lacerati, turbinosi, alla Tiepolo, ma più spesso alla Altdorfer e alla Greco, però senza gusto antiquario, mi rammentano le parole di Lorenzo Viani davanti a un mirabolante incendio celeste sul mare di Viareggio, con nubi di piombo orlate di brace, forate da lingue di fuoco e ventagli, sopra e sotto, di raggi d’oro: “Dio non c’è, ma ci starebbe bene”).
Fortunato Bellonzi, 1985