Franco Mulas – Galleria Ca’ D’oro, 1994
I quadri di Franco Mulas dicono con sufficiente chiarezza quali ne siano le motivazioni al di là della scelta primaria di dar forma in immagine alle ragioni del proprio vivere. Chi conosce la storia ormai trentennale della sua pittura sa quanto l’evoluzione sia stata ampia: così ampia da parere – ma parere soltanto – rovesciamento. Tra gli anni sessanta e settanta l’impegno del pittore sul fronte sociale – dei mali nella società, delle ingiustizie e distorsioni – era così forte da coprire tutto il suo orizzonte. Ma nel cosiddetto impegno si raccoglievano allora equivoci e contraddizioni, illusioni, velleità; e aneliti e passioni. Anche Goya fu pittore “impegnato”, e Picasso, e – absit iniuria – Fautrier. Qui va rilevato che la veemenza della pittura di Mulas toccava temi allora diffusi, ma apparteneva alla sua natura; era strutturalmente legata al suo modo di affrontare la realtà, aspro e scontroso, brutale, ma sempre nel rispetto dello specifico codice linguistico. E l’intervento su codesto codice. le sue manipolazioni, forzature, ostentazioni e smentite, erano nel conto del risultato già da quello scorcio degli anni sessanta in cui più marcato era l’intento contenutistico. Il quale ultimo certo prevaleva, anche se il senno di poi ci mostra quanto contasse la strumentazione formale in cui esso prendeva corpo.
Quello che sembrò capovolgimento di fronte era compiuto nel breve cielo di “L’albero rosso di Mondrian” del ’79-’80. Non più il “Weekend” dimostrativo o gli “Itinerari” drammatici e grotteschi; l’indagine – destrutturante e manipolatoria, in cui durava la componente intenzionale ma ora più segreta e con una trascinante ricchezza di mezzi pittorici – veniva condotta sul punto chiave di uno dei padri dell’astrattismo storico. E come fosse irreversibile il cammino e profonde le nuove ragioni espressive fu evidente nel decennio seguente in cui Mulas elaborò il ciclo delle “Finzioni”: di teatralità drammatica e di ampiezza visionaria ed evocatrice.
Oggi l’artista continua il vasto ciclo presentato poco più di due anni or sono nell’antologica romana di Palazzo Braschi. Egli è immerso nel medesimo clima che lo assorbiva già dal ’90, e una visita al suo studio dice che la tensione non si allenta e che altre immagini scaturiranno da questo momento di straordinaria concentrazione. Il lavoro di Mulas procede infatti per affondi rapinosi, con una velocità esecutiva in cui si scarica prensile, catturante quasi in un raptus divinatorio, un accumulo di suggestioni consce e inconsce cresciuto nei mesi e negli anni. Dura dunque il momento creativo già incontrato, eppure in esso par di cogliere, facendo perno sugli ultimi dipinti, una crescita e un mutamento. Tra le opere più tarde viste a Palazzo Braschi erano “Ninfee” o “Stellare”, variazioni sul tema delle lastre sovrapposte (una fotografia nel catalogo di quell’esposizione mostra il pittore appoggiato a una pila di frammenti di travertino come a un grosso libro); lastre che diventano, ciascuna, un conato di paesaggio. Si direbbe di impossibile paesaggio. Il riferimento al momento storico e alle sue traversie è esplicito, sia nel senso dell’ambiguità e dell’indecifrabilità del reale, della sua apparenza o finzione, sia nel senso della paventata fine di una dimensione del mondo che l’autore sente gravemente minacciata e non vorrebbe perdere. Ma la chiave ambientalista o ecologica o nostalgica è del tutto insufficiente. C’è nella visione di Mulas una latenza drammatica che oggi, a differenza di vent’anni fa, prescinde dal soggetto e inerisce alla realtà come tale: certo, è realtà di frammenti impazziti, di spazi sottratti ad ogni umano commercio, apocalittici, folli e in sospetto d’incubo. E ogni frammento, spazio o paesaggio vive una condizione di intrinseca e abnorme esaltazione: la tavolozza è al limite dell’urlo, gli accordi si fanno piuttosto sfide o provocazioni e l’alto voltaggio che li percorre sfiora la deflagrazione.
In questa ilagranza tragica, a suo modo ebbra, e cinica e gioiosamente disperata, le ultime opere introducono qualche novità. In una tavola come “Notturni” non soltanto si crea sul piano narrativo una continuità fra il cielo infuocato e l’ipotetico specchio d’acqua che sulla lastra ne accoglie il riflesso, ma quell’abbaglio non rifiuta una suggestione turneriana; nel “Volo radente a Giverny” il gabbiano di pietra scivola sui gorghi perfidi e velenosi di quelle che furono le ninfee monettiane, ma nella melma acida l’azzurro s’apre un varco non sospetto, di anelito, non di nostalgia. E in “Paesaggi” un albero inopinatamente ricomposto si piega all’enfasi di uno spazio che slarga nell’ansa ampia del fiume, a una proda verdeggiante d’insolito nitore, a un cielo che trasforma – è vero – la sontuosità delle nubi d’occaso in una ridda di meteoriti, ma accetta insieme, o non rifiuta, e segretamente ama, l’eredità romantica di Turner e di Friedrich. Non c’è pacificazione nello spirito di Mulas. Egli non conosce l’abbandono; la dimensione lirica o contemplativa, il canto spiegato, non gli appartengono, né il sussurro o il mistero. La sua non è neppure la passione impietosa e crudele di Bacon: per questo nella sua esaltata ma controllata veemenza ci è parso di ravvisare anche un risvolto di cinismo. Ma è proprio il lavoro degli ultimi anni – e specialmente gli ultimi quadri – a mostrare meglio che il suo antagonismo corrosivo, le sue impennate e il suo bisturi sono d’attacco quanto di difesa, nutrono, com’è consentito a una natura ribelle che un tempo si sarebbe detta “contro”, un amore segreto, dove non sai come bilanciare il furore per una sconfitta che non si può accettare e il rimpianto, furente anch’esso, di un mondo e di un modo di essere che vorrebbe, prepotentemente, il suo spazio.
Guido Giuffrè, 1994