Paludi e naufragi
Ora avanziamo per pianure acquitrinose, fra balzi, rigagnoli, pozzanghere, ristagni, fra muschi e filamenti, sterpaglie macere, gromme, viscidumi: scivola, schizza la grassa mota sotto il piede o si gonfia e cresce, avvolge, preclude il movimento. Forse siamo fermi, fermi sprofondiamo. E dietro è la notte senza scampo, il fitto oblio: nulla sappiamo ormai dei luoghi consistenti, dei solidi sentieri, del cammino che ci portò nelle maremme. Avanti è la luce. Una frigida luce di riverbero, d’un’alba immota, d’una stagione ignota. E avanti s’erge la barriera, il velarlo d’acque, la perenne cascata ch’erode e che cancella: in quali lontananze, in quale tempo cominciò questo diluvio? Una montagna s’erge, un cumulo di frantumi o d’ossa, una massa informe, spugnosa, che si chiude e diffonde ancora acque. Dentro il suo cuore mùcido, di melma, è sepolto e si sfalda l’ultimo segno: furono mai, e dove, fuochi, cieli chiari che non fossero questi, febbrili e violacei, sabbie, rocce, lastre, orme, forme, cifre sicure e decifrabili? Nella palute pallida, nel verminoso verde annega la memoria: vana sembra la ricerca, la prova d’un racconto. Labili, sfuggenti immagini riaffiorano dalle liquide arche, parole tronche, àtone, echi di vaste, deserte scalinate, di balaustre, di monche statue, precipiti, d’inseguimenti e fughe e guizzi di metalli: quale mai tragedia s’è consumata sopra quegli spalti? E ancora e altrove brani di praterie solarizzate, sfocature, riflessi, traiettorie, immobili sequenze: notturno è il mondo o d’una luce traslucida che abbaCina e consuma. Ma se appena ci volgiamo, castigo di sale, siamo spinti ancora, per lo scarto d’un riquadro, più dentro alla cascata, più presso alla montagna: e troveremo un varco, un passaggio, e cosa ci attente dietro quel sipario?
Mutata è la scena, ma uguale resta lo spettacolo, uguale il sogno, la pena. Ecco che da riviere di conterìa di vetro s’aprono le distese dei mari che naviganti improvvidi solcarono e notti illuni e cieli gravi, brume e calmeú1e sinistre in cui si sciolse ogni punto o freccia delle mappe, l’oscillazione degli aghi, il giro delle sfere, la fune del ri chiamo, il breve cerchio del fanale, ogni ricordo d’ancore e di porti: l’enigma è nell’occhio stupefatto, nel respiro fermo, sul labbro sibillino di tutte le polene.Ècerto tuttavia che velieri salpati alla speranza di isole felici cozzarono al passaggi d’infide simplegadi, s’incagliarono in ambigui fondali, sfasciarono su scogli invisibili e fatali, si persero nei gorghi. E pietre e scogli d’oro – riflesso e ironia di tesori dispersi o ricercati -, in simbiosi o mutazione, divennero le chiglie, i fasciami, gli alberi, le coffe, le sartie, le vele gonfie d’un vento ch’è calato, e i naviganti, naufraghi immortali – oh in tempi ancora umani la pietà per il fenicio a cui sappiamo le correnti sottomarine in dolci sussurri spolparono le ossa -, madrépore, cemento di conchiglie, cavi manichini d’un metallo senza suono.
Ma animo, antichi e ricorrenti sono i naufraghi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi, naufraghi d’una storia infrante, simboli d’un epilogo involontarie comparse, attoniti spettatori di questa metafisica.
Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo, incauti, il vario apparire nelle luci e nel tempi irriferibili.
Da trasparenze di fondali, dal placarsi di onde sopra onde basse, da risacche lievi, dal riemergere di ciottoli, legni, ferri levigati, dalla breve scogliera s’erge inclinata la nave, fantasmatica nell’incendio dell’estremo raggio; e sulla nave, sul tamburo della plancia, batte gli zoccoli in galoppo, vivida fiamma la criniera, un cavallino rosso: è l’ultimo innocente sogno, la nostalgia struggente di un Billy Budd prima d’annegare o di pendere nel vuoto dei pennone?
Su un altro scoglio, sul rottami d’un veliero, contro la murata, gli anfratti e le volute di cuoio d’una vela, sta assorto un marinaio, cavo come il barile a cui s’appoggia, nell’attesa di trasmettere o ricevere un impossibile messaggio,
Ma il messaggio viene, ambiguo e illusorio, al dileguarsi della notte, all’esplosione della luce, viva e irreale, col battello che scivola sicuro sopra l’acque e il simbolo crudele d’una donna dalla veste di vento e madreperla.
E quindi è la volta di isole stregate, di lagune e di montagne, di luoghi in cui si compiono sortilegi, incontri imprevedibili, sarcastiche apparizioni, amare citazioni d’iconografie consente o ignorate.
Ma grande sembra il sonno, grave di tedio, sembra che non ci sia scampo dalle paludi e al naufragi, spenta l’allegria e spento anche il desiderio d’una fuga:
Le chair est triste, hélas! et l’ai lu tous le livres.
Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseax sont ivres.
D’étre parmi l’écume inconnue et les cieux!(1)
Non resta che la malinconia d’una musica interrotta, una viola muta, una statua riversa dentro l’acqua.
(1) Mallarmé: “Brise marine”.
Vincenzo Consolo, 1985